“Una storia da non ripetere”. Pablo Escobar e il suo più critico biografo, il figlio Sebastian

unastoriadanonripeteredi William D'Alessandro - Roma. Per la prima volta in Italia, al teatro Brancaccio di Via Merulana, il figlio del narcotrafficante internazionale Pablo Escobar , Sebastian Marroquin ( all'anagrafe Juan Pablo Escobar), mette in scena il suo docu – spettacolo sulla vita del padre, argomento che ha richiamato allo storico teatro romano una nutrita folla di interessati di ogni età.
Architetto, padre di famiglia, trasferitosi a Buenos Aires con la madre e la sorella dopo l'uccisione del padre per cercare di staccarsi dalla pelle quel nome pesante e quella paura di poter essere sempre al centro del mirino, Marroquin mette a nudo tutto quello che c'è dietro la finzione cinematografica, dietro il personaggio, dietro il mito di Pablo Escobar.

Una favola – incubo nata fra le piantagioni di coca, di cui Marroquin ci narra come uno dei primi e più nitidi ricordi della sua infanzia, come una delle fiammelle che ha alimentato il fuoco violento del padre e di tutto il contesto ad esso relativo. Era l'inizio degli anni '80 quando tutti i contadini di Medellin, o quasi, smisero di coltivare caffè, frumento, frutta, chi in maniera spontanea chi coercitiva, e si diedero alla coltivazione delle piante di coca, affare che apparse già da subito ben più redditizio delle banane.

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Affare che tra l'altro, ci spiega, era un vantaggio anche per lo Stato Colombiano che, pur non avendo mai legalizzato l'attività, chiudeva due occhi e non uno in virtù della fruttuosità del mercato. Non esisteva neanche il reato di narcotraffico, bensì quello di " contrabbando di cocaina" con pene previste ben meno severe di quanto previsto oggi giorno.

I ricordi diventano ancora più personali, quando ci descrive quella Renault 4 con cui suo padre iniziò i primi viaggi per il trasporto della coca, e quelle sue feste di compleanno che divenivano pretesto per la "crew" di Pablo per divertirsi ed eccedere.

A chi infatti gli ha sempre invidiato la sua infanzia fra lo sfarzo, Marroquin racconta di quella festa dei suoi 7 anni, in cui il padre comprò una pignatta. Era un gioco per bambini, ma Escobar decise di non riempirla con caramelle, ma con banconote. E quando la pignatta si ruppe, ai bambini non restò neanche il tempo di realizzare la delusione per la mancanza di caramelle, che una fiumana di uomini li sovrastarono per potersi contendere il denaro che fuoriusciva dal loro gioco innocente.

" Da piccolo le mie tate erano i peggiori criminali di tutta la Colombia, gli assassini mi portavano a scuola, i paramilitari giocavano a calcio con me, tutti si drogavano come i pazzi e io sentivo dentro di me che qualcosa in quel mondo non lo stavo capendo bene"

O come quando, in uno dei tanti assedi della polizia effettuati alla Haciend Napoles ( una delle abitazioni più sfarzose e monumentali in cui visse la famiglia Escobar) , non avevano neanche un pezzo di pane per mangiare, ma quattro milioni di dollari in contanti disparsi per la casa.

I due punti focali nella vita della famiglia, secondo Marroquin, sarebbero stati due: l'omicidio del Ministro della Giustizia Colombiana Rodrigo Lara Bonilla il 30 aprile del 1984, e le stragi in tutta la città di Medellin che il padre ordinò in risposta all'attentato ( infruttuoso) subito dal rivale cartello di Calì.
Con il primo, Escobar si addossò tutta l'ira dello Stato colombiano, e parimenti di quello americano, non riuscendo quindi più a godere di quei privilegi che prima, in luogo di un patto di non belligeranza, gli erano consentiti dalle autorità.
Col secondo invece, perse quello che per Marroquin era sicuramente l'appoggio più importante, quello di un popolo che sinora lo aveva etichettato come il nuovo Robin Hood, l'unica persona capace di indicare una via verso il benessere e il progresso per la Colombia.

Accompagnato poi dalle immagini del documentario, prodotto nel 2009, "Sins of my father" ( in cui racconta i momenti più intimi della vita familiare) , Marroquin si inoltra a raccontarci il giorno della morte del padre, rinnegando le teorie più citate sugli ultimi momenti di vita del narcos.

"Non è stato lo stato Colombiano, non è stata la Dea, non sono stati i Los Zetas. Mio padre era latitante, ma quel giorno mi telefono dieci volte, di solito mi chiamava una volta al mese . Io lo supplicavo di chiudere la chiamata, sapevo che ci stavano intercettando, ma a lui pareva non interessasse nulla. Si fece scovare, e due giorni prim,a mi riferì il suo medico, chiese quale modo esisteva per essere sicuri di morire tentando il suicidio. Il dottore gli suggerì di spararsi all'orecchio destro, e fu proprio quella ferita che venne trovata sul cadavere di mio padre su quel tetto di Medellin quel 2 dicembre del '93".

Pone molti dubbi sulla veridicità di tante descrizioni fatte sulla vita e la morte del padre, citando spesso gli errori commessi, ad esempio, dalla serie televisiva Narcos.

" Mio padre era un tifoso sfegatato dell' Independiente, l'hanno descritto come tifoso dell' Atletico Nacional, si starà rivoltando nella tomba ( ride, n.d.r.), e non è mai stato fermo su un divano a godersi un momento di tranquillità, quasi quasi la descrizione che ne esce dal telefilm è di un uomo apatico che delegava, nulla di meno vero!"

Lo spettacolo termina con il racconto di Marroquin sul modo in cui ha vissuto il post- Pablo, su quello che ha fatto per, dice, " non tanto discolparmi o cercare di pulire la mia coscienza, quanto per sanare delle ferite ancora aperte e dolorose", come ad esempio incontrare i figli dei funzionari uccisi dai sicari del padre, i figli del Ministro Bonilla, le famiglie delle tante persone colpite dagli omicidi ordinati da Escobar.

In fin dei conti, il ritratto che traspare dal racconto di Marroquin è quello di un padre attento si, ma con dei principi deviati, distorti, malsani, che l'adolescente figlio già intuiva e che gli scaturivano timore.

Un padre che, alla richiesta del figlio di placare la sua ira e di porre fine agli attentati, rispondeva " la guerra prevede i morti, e noi siamo in guerra", un padre che non aveva più compassione di nessuno, un padre che, alla sua morte, lo condannò a essere nel mirino del cartello di Calì, al quale Marroquin dovette cedere tutto i loro possedimenti e partecipare a un incontro da cui, dice " ero sicuro di non uscire vivo, avevamo emesso una taglia di quattro milioni di dollari sulla mia testa".

In questo " Libro della Giungla", non scritto da Kipling ma reinterpretato da Quentin Tarantino, il " Mowgli " Escobar oggi Marroquin ci ha raccontato il suo branco, le sue guide pazzoidi, i suoi vati criminali, la sua vita plasmata in relazione a quella di un padre scomodo, pericoloso, tentando di far emergere quel " cucciolo d'uomo" scomparso dietro una storia di lupi, serpenti e tanto, tanto sangue.